sabato 18 aprile 2015

L'arte scivolosa delle traduzioni

Tradurre è un'arte molto complessa e, per dirla in breve con un noto adagio, tradurre significa tradire il testo.

Allora ci possiamo domandare se De André, per esempio, ha tradotto bene i testi di Brassens (Le passanti, Morire per delle idee, Il gorilla…). A me era già capitato di fare un raffronto1 tra Mourir pour des idées e Morire per delle idee, tra Le gorille e Il gorilla, ed ero giunto alla conclusione che si trattasse di buone traduzioni, nei limiti in cui sia possibile tradurre un testo di una canzone o una poesia2.

C'è sicuramente chi non è d'accordo con me3: si può dire che alcuni significati vengono persi; che non ci sono quei bei giochi di parole che caratterizzano la poesia originale (però magari ce ne sono altri?); che nell'originale ci sono delle allusioni che si perdono, delle assonanze più “potenti”, ecc.

Se ci aspettiamo che una traduzione possa riprodurre fedelmente qualunque contenuto, qualunque sua sfumatura, qualunque emozione veicolata, e che possa accendere nel lettore esattamente lo stesso insieme di simboli che accende l'originale in un lettore che conosca bene la lingua in cui è scritto e la cultura a cui è legata tale lingua, secondo me dobbiamo concludere per forza così: tradurre è, in realtà, impossibile.

Ora faccio un passo (cronologico) indietro.

Non molto tempo prima di arrivare a parlare di De André che “traduce” le canzoni di Brassens ero inciampato in un passo di “Il crollo della galassia centrale” di Asimov, tradotto da Cesare Scaglia per una edizione Arnoldo Mondadori Editore del 1985. A pagina 94 si legge:

Non ha altro nome che quello di Mule, un nome che a quanto pare si è dato da sé, e significativamente: si dice che quel nome sia dovuto alla sua forza autoritaria e alla sua rinomata testardaggine.

Il traduttore scelse di non tradurre il nome: nel testo italiano si legge «il Mule», in quello inglese «the Mule». La scelta è coerente con quella che ci porta a leggere «William» invece di «Guglielmo»4, «Robert» invece di «Roberto», e così via: se quello è un nome proprio di persona, meglio mantenere la forma originale e non cadere nella tentazione di trovare un equivalente italiano.

Ma… c'è un ma…

Sembra quasi che il traduttore abbia ritenuto un puro caso che l'alieno nome proprio di persona «Mule» fosse anche la parola con cui gli inglesi chiamano quel mammifero che per noi è il mulo.

Oggi “nessuno” si sognerebbe di tradurre «John Smith» come «Giovanni Smith», ma soprattutto nessuno, di norma, ritiene importante sottolineare il fatto che «smith» significhi fabbro (la traduzione del nome e del cognome sarebbe allora «Giovanni Fabbro»…).

Ma se il testo fa un esplicito riferimento a quel significato, ecco che il traduttore si trova di fronte a un dilemma: tradurre il cognome, in modo che il lettore italiano capisca quel riferimento, oppure mettere una nota? Per un cognome standard come «Smith», nel caso di un riferimento occasionale, credo che la soluzione migliore potrebbe essere l'aggiunta di una nota5.

Nel nostro caso, però, «Mule» non è un nome o un cognome standard. Il passaggio citato chiarisce senza ombra di dubbio che si tratta proprio del sostantivo «mulo», usato come nome proprio di persona in virtù di alcune caratteristiche stereotipiche di quell'animale.

Posso concludere che la scelta di non tradurre «the Mule» come «il Mulo» sia stata a dir poco infelice, ossia sbagliata, proprio alla luce di quel passaggio particolare: sembra quasi di avere a che fare con un errore tipografico. Una sensazione spiacevole, perché per associare la testardaggine, caratteristica «rinomata» del mulo, al personaggio «Mule», il lettore è costretto a “correggere” mentalmente la e e interpretare «Mule» proprio come «Mulo»; e così il passaggio acquista un senso.

Fortunatamente le traduzioni successive hanno preferito «il Mulo», e così tutto torna6.

Dopo essere inciampato in quel passaggio, dopo aver maturato l'intenzione di scrivere le osservazioni su fatte e prima che trovassi il tempo per scriverle, è capitato che un collega tirasse fuori il problema delle traduzioni deandreane dei testi di Brassens.

Sincronicità!

I molti problemi che la traduzione dei testi presenta mi affascinano da molto tempo7. Per farsi un'idea di quanto lontano si può arrivare per esplorarli, suggerisco la lettura di “Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlando brillante”, di Douglas Hofstadter, dove in particolare si affronta il tema nel capitolo XII8, con le traduzioni della poesia “Jabberwocky” di Lewis Carroll9 (ma in realtà si possono trovare indistricabili connessioni con tutto il resto del libro).


  1. Conosco poco il francese e non ho fatto un'analisi del testo alla ricerca di significati nascosti, allusioni, allegorie, giochi di parole e qualunque altra cosa possa risultare lampante a un madrelingua o possa essere in grado di evocare altri livelli di lettura. Dunque il mio giudizio si basa solo sulla constatazione che la traduzione dice, grossomodo, le stesse cose ai livelli più ovvi; posso dire che è anch'essa “poetica”, però non ho modo di dire se lo è similmente oppure no — penso in realtà che nemmeno un bilingue possa stabilirlo. L'unica cosa che può osservare è che nella traduzione in effetti si percepiscono e si comunicano cose diverse: magari si perde qualcosa, ma ciò non esclude che si guadagni altro… E se non sapessimo qual è l'originale e quale la traduzione, cosa potremmo fare se non constatare che i testi sono “simili” seppur “diversi”?

  2. La prosa presenta alcune difficoltà in meno, poiché in effetti ha meno vincoli (per esempio non deve impegnarsi a mantenere la metrica o riprodurre le rime).

  3. L'argomento è saltato fuori qualche giorno fa con un collega che mi diceva di una sua amica madrelingua francese che criticava le traduzioni di De André: secondo lei perdono molto rispetto all'originale. Comunque non tutti i testi possono essere classificati come traduzioni; per esempio La leggenda di Natale prende l'ispirazione da Le père Noël et la petite fille, ma risulta subito palese che non si può parlare di una traduzione. Forse ciò vale anche per i casi in cui sembra di avere a che fare con una traduzione quando invece la “fedeltà al testo”, seppur ricercata, si può considerare un puro accidente.

  4. Se torniamo un po' troppo indietro nel tempo, ci imbattiamo nella consuetudine di italianizzare i nomi. Per esempio Isaac Newton diventa Isacco Newton

  5. Forse un lettore inglese “aggancia” la parola-simbolo “smith” (fabbro) solo nel momento in cui viene fatto un riferimento che evoca quel significato, ma altrimenti la percepisce un po' come facciamo noi: un suono che identifica una persona (insieme ad altri dettagli), senza veicolare esplicitamente l'idea di “fabbro”.

  6. Mi sembra che ci siano altri passaggi che possono essere compresi meglio tenendo a mente che «il Mulo» si chiama così proprio in omaggio all'animale, se così vogliamo dire.

  7. Potrei dire da sempre, visto che “da sempre” mi interessano i linguaggi, nell'accezione più ampia del termine.

  8. All'epoca mi cimentai anche io con la traduzione di Jabberwocky: nello stesso testo del capitolo avevo trovato qualche spunto e mi erano venute delle idee che, secondo me, avrebbero dato una traduzione migliore rispetto a quella italiana messa nel libro. Non ricordo se riuscii a completare la traduzione o no. Qualora dovessi ritrovare quegli appunti, state certi che ne farò un post… (È una promessa, non una minaccia!)

  9. La Suite anglo-franco-italo-tedesca (la poesia Jabberwocky in originale e nelle traduzioni francese, italiana e tedesca) precede il capitolo XII, “Menti e pensieri”, la cui prima sezione è “Si possono trovare corrispondenze tra menti diverse?”, che dovrebbe dare una vaga idea del problema che si sta affrontando. Nella sezione “Le traduzioni di Jabberwocky” troviamo un passo come questo: «Ad esempio nel cervello di un inglese “slithy” (sdrucciolevole) probabilmente attiva, in varia misura, simboli come “slimy” (melmoso), “slither” (sdrucciolare), “slippery” (viscido), “lithe” (flessibile) e “sly” (truffaldino). “Lubricilleux” esercita un effetto corrispondente nel cervello di un francese?»…

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